Gal 2, 17-19 Morti alla legge viviamo per Dio

(Gal 2, 17-19) Morti alla legge viviamo per Dio
[17] Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, forse Cristo è ministro del peccato? Impossibile! [18] Infatti se io riedifico quello che ho demolito, mi denuncio come trasgressore. [19] In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. (CCC 2666) Il nome che comprende tutto è quello che il Figlio di Dio riceve nell'Incarnazione: GESU'. Il Nome divino è indicibile dalle labbra umane [Es 3,14; 33,19-23], ma il Verbo di Dio, assumendo la nostra umanità, ce lo consegna e noi possiamo invocarlo: “Gesù”, “YHWH salva” [Mt 1,21]. Il nome di Gesù contiene tutto: Dio e l'uomo e l'intera Economia della creazione e della salvezza. Pregare “Gesù” è invocarlo, chiamarlo in noi. Il suo nome è il solo che contiene la Presenza che esso significa. Gesù è risorto, e chiunque invoca il suo nome accoglie il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui [Rm 10,13; At 2,21; 3,15-16; Gal 2,20]. (CCC 1380) E' oltremodo conveniente che Cristo abbia voluto rimanere presente alla sua Chiesa in questa forma davvero unica. Poiché stava per lasciare i suoi sotto il suo aspetto visibile, ha voluto donarci la sua presenza sacramentale; poiché stava per offrirsi sulla croce per la nostra salvezza, ha voluto che noi avessimo il memoriale dell'amore con il quale ci ha amati “sino alla fine” (Gv 13,1), fino al dono della propria vita. Nella sua presenza eucaristica, infatti, egli rimane misteriosamente in mezzo a noi come colui che ci ha amati e che ha dato se stesso per noi [Gal 2,20], e vi rimane sotto i segni che esprimono e comunicano questo amore: La Chiesa e il mondo hanno grande bisogno del culto eucaristico. Gesù ci aspetta in questo sacramento dell'amore. Non risparmiamo il nostro tempo per andare ad incontrarlo nell'adorazione, nella contemplazione piena di fede e pronta a riparare le grandi colpe e i delitti del mondo. Non cessi mai la nostra adorazione [Giovanni Paolo II, Epist. Dominicae cenae, 3].

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